“Quattro quadri di Silvestro Lega” Racconto di Rossella Bianucci

Per Silvina Spravkin che scolpisce l’anima delle cose.

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Matilde era seduta vicino alla finestra che dava sul giardino d’ingresso. Il salotto appariva scomposto, le due poltrone accostate alla consolle, il divano di fianco al camino, i tappeti arrotolati in disparte, al centro c’era lo spazio vuoto dove era stato fino a poco prima montato il cataletto. Un fiato di fiori e d’erba posava intorno. La lucerna era spenta e la stanza in penombra prendeva un poco di luce dalle finestre, ma all’esterno la giornata grigia d’inverno incipiente sembrava aver completamente dimenticato come dare luce a un interno. Poi le vide arrivare, le gemelle con i loro abitini grigi e le mantelle nere a smerli poggiate sulle spalle magre. Era il segnale che il funerale era terminato e suo marito riposava ormai nella tomba di famiglia.

Venivano a trovare lei le due gemelle, presto le avrebbero descritto la cerimonia e nominati uno per uno tutti i presenti; erano curiose, infatti, come due donnole.

Matilde era rimasta orfana di madre quando era ancora molto piccola e suo padre, dopo la morte di lei, per molti anni non si era risposato, alla fine però, vinto dalla solitudine, lo aveva fatto. Le gemelle erano nate dal suo secondo matrimonio dopo le nuove nozze, erano infatti più giovani di Matilde di dieci anni. Erano ancora bambine quando Matilde si era fidanzata con Fosco Sernesi. Le ricordava mentre li accompagnavano nelle loro prime passeggiate insieme, appena fidanzati, vestite di bianco con i cappellini di paglia in testa sotto lo sguardo vigile della loro madre, pochi passi dietro di loro per non lasciarli mai soli.

Se una delle due si fermava a raccogliere fiori o ad osservare un insetto, la madre subito si girava a farle fretta perché non restassero troppo indietro dalla coppia che li precedeva nel grande prato dietro la loro casa. Lei allora non si voltava mai a guardarle, il suo sguardo era solo per Fosco, il suo innamorato. A quel tempo era stata felice, quando ancora non credeva possibile che fosse piaciuta ad un uomo tanto più grande di lei e così bello, l’ovale del viso illuminato da occhi tanto scuri, così malinconici, i bei capelli neri pettinati all’indietro.

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Uscì incontro alle sorelle, la porta era già accostata e allo scalino stava ancora appoggiata la lastra sulla quale poco prima erano scivolate le ruote dove posava la bara di Fosco, l’aria pungente di quel buio pomeriggio la fece tremare, non aveva mantello sulle spalle, era vestita a lutto, i capelli raccolti, senza gioielli agli orecchi né cappello sul capo, rabbrividì dunque prima di trovarsi il viso di Delfina, il tepore della sua guancia profumata contro la propria, le mani di lei strette alle sue. Quando si scostò per lasciare che anche Clementina svolgesse a sua volta la stessa cerimonia con identici gesti, non incontrò i loro sguardi ma notò i loro orecchini d’oro e i cappellini neri a tamburello col nastro grigio posati sui loro capi appena abbassati. Le due gemelle l’avevano sempre messa un poco a disagio e non tanto perché non gli volesse bene o provasse gelosia verso di loro per averle rubato il babbo, ch’era stato, prima del loro arrivo, tutto per lei, ma proprio per il loro essere gemelle: due visi, quattro occhi, la stessa voce, una l’eco dell’altra. Trovava strano, in certo modo misterioso, il loro modo di comunicare tra di loro in silenzio, escludendo da sé tutto il resto con un batter di ciglia.

Entrarono in casa e fu subito avvolta dalle loro attenzioni come fosse diventata d’un tratto un oggetto troppo delicato da maneggiare. Si divisero i compiti con uno sguardo: l’una si sedette accanto a lei e, carezzandole il capo, le tenne strette le mani rimproverandola di essere uscita senza vestirsi abbastanza.

– ..Una serata così umida e fredda! Pensa che durante la funzione anche don Pietro ha tossito più volte..

L’altra intanto si diede a ravversare la stanza risistemando i mobili al loro posto e i tappeti, cancellando in fretta le tracce di quanto fino a poco prima era avvenuto tra quelle mura; si chinò infine ad accendere il camino perché l’odore della legna bruciata per riscaldare l’ambiente purificasse l’aria che odorava ancora di fiori mortiferi e di cera.

La maestra Donata aveva assistito, un poco distante, all’arrivo delle gemelle, loro non s’erano accorte di lei che le aveva viste farsi incontro sollecite alla sorella e si era fermata di fianco alla casa, accanto agli alberi spogli che levavano al cielo i loro rami stanchi, s’era stretta nel suo vecchio mantello di panno marrone, indecisa, sul punto di volgersi indietro. Era tornata indietro, difatti, di qualche passo, ma s’era fermata poi di nuovo quando il suo sguardo era caduto su di una conca di coccio abbandonata in un angolo, vuota, tranne per un po’ di terra bagnata dimenticata sul fondo. Fu forse la vista di quell’oggetto inutile posto in disparte a farle superare il ritegno che la tratteneva dal raggiungere la casa dove prima d’allora non era mai stata. “E’ oggi che devo andare, oggi che Fosco è uscito di qui per sempre” si disse, “è oggi che devo andare, altrimenti non lo farò più”si ripeté. Pensò a quel vaso vuoto dimenticato in un angolo, lo stesso che un tempo avevano accarezzato nel buio terriccio le svelte radici di chissà quale pianta, e ne fu rattristata.

Poi alzò lo sguardo alle mura della casa sconosciuta, all’intonaco giallino un po’ screpolato, alle alte finestre protette da nere inferriate, poi ai campi e alle colline in distanza dove si trovava la sua casa e alla strada che l’aveva portata fin lì. Allora riprese a camminare stringendosi al collo la lunga sciarpa nera.

La porta era ancora accostata, lo è sempre quando muore qualcuno, Donata spinse un poco l’anta ed entrò.

Il grande atrio oscuro era ravvivato appena dalla luce che filtrava da una porta socchiusa, provenivano di lì le voci delle gemelle come in un soliloquio, Donata non udì le risposte di Matilde, se pure ce ne furono. Mentre ancora indugiava sulla soglia, Clementina (o forse era Delfina?) s’affacciò, la vide, sparì di nuovo all’interno della stanza, poi una voce, la sua o quella della sorella, si mise a chiamare: “Ida, Ida!” finché le si fece incontro una donnina intenta a pulirsi le mani nel grembiule, la lunga gonna fermata su di un fianco mostrava i polpacci rotondi coperti da calze grige di lana grossa lavorata coi ferri. “Venga, s’accomodi qui, vado ad avvertire la signora” le disse con un sorriso mite, e la fece entrare in una stanza chiusa che aprì per lasciarla passare. Donata vide una scrivania scura, riconobbe gli occhiali di Fosco posati su di un fascio di carte ordinate e capì di trovarsi nello studio di lui. Era così che forse se lo era immaginato anche se non ricordava di aver mai cercato di immaginarlo, o magari sì lo aveva fatto, ma in un tempo così lontano che lo aveva poi dimenticato. Del resto da molti anni non pensava quasi più a Fosco, solo la notizia della sua morte l’aveva costretta a rievocarlo, rendendo ancora una volta presente ciò che le era parso passato per sempre proprio mentre di lui solamente il passato, appunto, era rimasto a rievocarne l’immagine. Si era chiesta se fosse il caso di venire fin lì e a lungo aveva dubitato ma, abituata a prendere da sola le sue decisioni, si era infine risolta, pensando, pur senza esserne affatto convinta, che lui stesso ora lo avrebbe preteso.

Era stata Delfina a vedere Donata sulla soglia di casa e, rientrata in salotto, aveva pronunciato a voce alta il suo nome, allora Clementina, scambiato con la sorella un veloce cenno d’intesa, aveva chiamato Ida, la vecchia tata di Matilde che l’aveva seguita nella casa del marito per continuare a prendersi cura di lei come aveva fatto quando, da bambina, aveva perso la madre. “Che è venuta a fare la maestra? Tu la frequentavi, Matilde? Eri in relazione con lei?” disse Delfina, e Clementina le fece eco: “non mi pare di averla vista al funerale..ma già c’era tanta gente!” Matilde rispose che la conosceva appena ma era stata gentile a venire: “del resto Fosco lo conoscevano tutti in paese..e tutti gli volevano bene.” mormorò tra le lacrime.

La maestra Donata invece non era ben vista in paese o almeno non lo era stata quando, dopo il suo arrivo, era divenuta per lungo tempo oggetto di chiacchiere per quella sua riservatezza che la faceva credere altezzosa a quante l’avevano avvicinata e con nessuna aveva voluto stringere amicizia, ma poi: “è fatta così”, avevano cominciato a dire, e avevano perso interesse per lei che non si confidava con nessuno. Le gemelle, curiose come donnole, erano state tra coloro che avevano cercato la sua confidenza ma, al pari delle altre, erano state da lei allontanate con cortese fermezza una volta uscite da scuola: Donata era stata infatti la loro insegnante.

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Era bella a quel tempo la signora maestra, ancor giovane, nonostante vestisse con grande semplicità; non aveva bisogno di abiti eleganti per apparire, bastava vederla arrivare la mattina a scuola con i capelli scuri nascosti dalla pezzuola cremisi annodata sotto la gola e un mazzolino di fiori appuntati in petto, per restare incantati dal suo portamento e dalla grazia che il suo viso emanava. Le gemelle avevano per lei un rispetto ammirato e pendevano dalle sue labbra: era stata allora un modello di vita, loro due s’eran messe a imitare i suoi modi e lei ne aveva sorriso mentre di solito non sorrideva mai. S’eran sentite poi messe da parte senza ragione perché avevan creduto in quegli anni, bambine, di contare qualcosa per lei mentre lei, divenute ragazze, pareva averle affatto dimenticate, tanto brevi eran divenuti i suoi saluti se le incontrava di lontano per strada. Matilde invece non aveva di Donata alcun ricordo se non quello che le gemelle stesse allora le avevan trasmesso, parlandone tanto spesso, e non aveva per lei curiosità alcuna specialmente quel giorno che l’aria stessa le vacillava d’intorno.

Quando entrò nella stanza accompagnata da Ida, le gemelle le si fecero incontro come fosse venuta per loro e lei, compiacente, questa volta si lasciò baciare; loro la paragonarono ai ricordi che avevan di lei e si comunicarono, col solito sguardo incrociato in un batter di ciglia, quanto ora la trovassero cambiata. Era bella ancora, certo, i lineamenti eran quelli, ma il suo passo non era più così leggero e le spalle un po’ curve sotto il mantello in disordine, la sciarpa di lana nera, poi, era vecchia e sciupata e la maestra non portava nemmeno il cappello. Se lo dissero senza parlare ed ebbero fastidio di quella trascuratezza che parve loro inadatta ad una visita di condoglianze; che fosse solita vestire senza eleganza lo sapevano sì, ma questa volta era diverso e lei avrebbe dovuto saperlo. Ida si fece dare il mantello e la sciarpa per posarli in anticamera, allora apparve l’abito scuro e accollato che Donata aveva indosso e le gemelle ne disapprovarono tra loro la linea fuori moda e la cattiva qualità della stoffa. “Siete diventate due belle giovani donne molto eleganti” disse Donata, indovinando i loro pensieri, ma chissà come, la frase gentile non sembrò loro un complimento e nessuna delle due si sentì di dover ringraziare.

Si avvicinò quindi a Matilde che ancora sedeva spaesata nella poltrona vicino alla finestra e le porse le sue condoglianze con baci leggeri su entrambe le gote, lei le disse di accomodarsi e Donata sedette vicino a lei.

Rimasero un poco in silenzio, come sempre succede quando l’imbarazzo d’un’occasione imprevista e dolorosa lascia ciascuno prigioniero dei propri pensieri, poi fu Matilde che, all’improvviso, si rivolse a lei quasi rabbiosa: “Voi che siete maestra e avete studiato, perché restate in silenzio? Nemmeno voi conoscete le parole che servono a portare conforto?” e Donata rispose: “Consolare è cosa difficile, non c’entra lo studio, ma è appunto per questo che sono venuta. Lo sapevate, del resto, che la vita è una malattia sempre mortale.”  Allora Matilde prese a rievocare la morte di Fosco, improvvisa, parlò di come fosse uscito di casa tranquillo al mattino per andare a visitare uno dei suoi poderi dove il contadino aveva una mucca che stava per partorire, e come proprio lì, nella stalla, avesse avuto un malore. Quando il medico era arrivato Fosco era già morto, lì in casa del suo contadino, senza di lei, assistito alla meglio da quella povera gente.

“Almeno non avrà sofferto” disse una delle gemelle” e poi, rivolta a Donata, come la scolaretta che era stata: “ma perché, maestra, dite che la vita è una malattia?” La maestra non rispose. Prese invece ad accarezzare il capo di Matilde che aveva intanto ripreso a piangere.

Clementina s’alzò, delle due era la più impaziente e aveva bisogno di avere sempre qualcosa da fare. “Vado a sentire se Ida le porta qualcosa di caldo, Matilde ha preso freddo quando ci è venuta incontro senza mantello” e si diresse in cucina a cercare la vecchia balia. Delfina la seguì con lo sguardo, incerta se fosse il caso di alzarsi per andare con lei, capiva che la maestra era venuta per parlare con Matilde e forse avrebbe fatto meglio a lasciarle un po’ sole, ma non sapeva decidersi per la curiosità di ascoltare cosa aveva da dirle. Fece dunque eco alla sorella accennando anch’ella alla brutta stagione e al pericolo delle infreddature.

Matilde la guardò con la stessa rabbia improvvisa che aveva manifestato poco prima a Donata: “cosa vuoi che m’importi di ammalarmi, ora che mio marito è morto, sarebbe anzi meglio che me ne andassi anch’io.. Vedova, senza figli da crescere, sola con la povera Ida in questa casa troppo grande dove i ricordi mi tormentano, a che mi serve la vita? Questa vita sì che sarà d’ora in poi la mia malattia!” “Sono sicura che non è quello che intendeva la signora maestra, Matilde. Ora è troppo presto per parlarne, ma vedrai che il tuo dolore col tempo diverrà più leggero, ora la senti come una malattia questa tua condizione, ma piano piano passerà, succede a tutte.. Anche la signora Banti, hai visto che..” Delfina stava per portare ad esempio la storia di quella signora ma fu interrotta dal gesto brusco di Matilde che, irata, quasi gridò: “finiscila Delfina, sai dire solo le solite sciocchezze che dicono tutti, ne ho abbastanza..e poi la Banti ha una figlia, che c’entra con me?” Delfina subito si zittì, mortificata, “hai ragione,” disse “ho sbagliato e ti chiedo perdono.”

Il fatto di non avere avuto figli era una croce che Matilde aveva sempre sopportato in silenzio, anche per non contrariare il marito che, ne era certa, ne soffriva quanto lei anche se non ne faceva parola. Un uomo come lui, ricco, che sposa una donna molto più giovane, lo fa anche per avere un erede, questo pensava. E anche se Fosco era stato sempre buono con lei, l’aveva rispettata e trattata con ogni riguardo, Matilde non aveva trovato mai il coraggio di rivelargli che si sentiva sola quando lui usciva per i suoi affari e che il desiderio d’un figlio la tormentava. Arrivava al punto di sentirsi una cattiva moglie oscuramente colpevole, anche per questo non osava confidargli la sua pena, temendo che l’avrebbe, a buon diritto, rimproverata, e magari, a quel punto, si sarebbe allontanato da lei per sempre. Le sorelle, invece, sapevano e quando se ne presentava l’occasione cercavano di rassicurarla, o almeno d’evitare l’argomento in sua presenza, non così, però questa volta, aveva fatto Delfina che quando non aveva la gemella al suo fianco tendeva talvolta a confondersi.

Donata non le diede ascolto perché andava intanto riordinando dentro di sé il discorso ch’era venuta a fare e sentiva l’ansia di pronunciarle, finalmente, quelle parole che le bruciavano in gola, ma sapeva di dover aspettare che Matilde rimanesse da sola e temeva che le sorelle volessero restare a tenerle compagnia per la notte. In quel caso sarebbe dovuta tornare un altro giorno e aveva paura che non ne avrebbe più avuto il coraggio. Pensava che quando le aveva viste arrivare sarebbe dovuta tornare indietro e si pentiva di non averlo fatto, anche in quel caso, comunque, sarebbe dovuta tornare in un’altra occasione e sarebbe stato difficile anche allora dover aspettare.

Entrò Ida con la guantiera del the accompagnata da Clementina e fu l’occasione perché la conversazione prendesse una direzione diversa e si stemperassero gli animi almeno in apparenza, anche se Matilde non volle bere il suo the nè assaggiare la fettina di torta di mele che Ida le aveva messa nel piatto protestando che l’aveva fatta lei perché di solito le piaceva tanto. Donata sentiva scorrere il tempo come fosse una lama che le tagliasse la pelle, fuori dai vetri era ormai calata la sera precoce dell’autunno e si sentiva stanca, ansiosa di rinunciare e ritrovarsi da sola, sulla strada del ritorno.

Fece per alzarsi e prendere finalmente congedo, ma Clementina, la più perspicace ed energica delle gemelle, la precedette, prendendo la decisione anche per la sorella. “Perché non resta ancora un po’ invece, signora maestra, a tenere compagnia a Matilde? Noi ora dobbiamo proprio andare”. E poi, rivolta a Matilde: “torneremo domattina presto col babbo. Cerca di riposare stanotte, Ida ti darà l’infuso di valeriana che ti ho portato.” Delfina si alzò in piedi a sua volta e ci fu uno scambio di baci e di abbracci finché arrivarono dall’anticamera le due mantelline nere e i cappelli che prontamente furono indossati. Le due donne, rimaste sole, sentirono chiudere la porta, Donata si riscosse al rumore, come sorpresa: ecco che il momento era arrivato proprio quando stava per rinunciare.

“Vi ho detto che sono venuta per cercare di consolarvi” cominciò in fretta, senza darsi il tempo di riflettere “e intendo farlo in un modo che certamente non vi piacerà, ma potrete forse, col tempo, capire le mie ragioni.” Matilde, a quell’esordio brusco, s’irrigidì, e si mise a fissarla negli occhi costringendola ad abbassare lo sguardo. “Scusate, sono stata sgarbata, non è facile parlarne nemmeno per me.. non volevo confidarmi in presenza delle vostre sorelle e fino a un momento fa avevo deciso di rinunciare, così ora non trovo più le parole..” Si confondeva, le mani stringevano la stoffa dell’abito che aveva indosso, “devo essere pazza” pensò.

“Cos’è che non mi piacerà? In questo momento non c’è niente che potrebbe piacermi, dunque… è qualcosa che ha a che fare con mio marito? Siete venuta per parlarmi di lui?” disse Matilde, con una strana presaga fierezza. S’udì un “sì” che fu un sussurro, poi Donata, incapace di continuare, le mostrò il ritratto che portava nel medaglione che teneva in seno. “E’ mio figlio” disse “ed è il figlio di Fosco.” Aveva preparato certo un diverso discorso, meno improvviso, meno sfacciato, “questa povera donna.. che ho fatto?” si disse. Mai prima d’allora s’era trovata in una situazione tanto difficile nonostante le difficoltà nella vita non le fossero mancate, ma ormai era andata così, tanto valeva continuare subito, raccontare tutto.

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E Donata, di fronte al silenzio di Matilde, raccontò tutto, parlò di come avesse conosciuto Fosco prima del suo matrimonio e di come si fosse innamorata di lui, le disse poi che Fosco l’aveva lasciata per sposare lei e che ne aveva sofferto moltissimo ma, nonostante tutto, non era riuscita a dimenticarlo. Dopo il suo matrimonio era stato lui a ricercarla e ne aveva fatto la sua amante, lei avrebbe dovuto sottrarsi, lo sapeva, ma non c’era riuscita perché era pazza di lui, poi, dopo la nascita di loro figlio, Fosco si era allontanato sempre di più da lei e le aveva imposto di affidare il bambino ad un istituto perché crescesse lontano e nessuno potesse sospettare della sua esistenza. Era rimasta sola e i suoi pensieri erano tutti per quel figlio, per il poco tempo che poteva passare con lui, non aveva più visto Fosco e lui non li aveva più cercati. Quel bambino ora era un giovane uomo e lei aveva voluto che sapesse di suo padre e ch’era stata lei sola a provvedere a lui per tutti quegli anni, sacrificando se stessa senza risparmio. Lo disse tutto d’un fiato, senza soffermarsi sui particolari, senza cercare di giustificarsi, come parlasse di qualcosa ch’era accaduto ad un’altra, e quand’ebbe finito si sentì spossata, senza respiro.

Matilde aveva ascoltato senza interrompere e non mostrava in apparenza alcuna emozione: “E questo avrebbe dovuto consolarmi?” disse soltanto “dite che davvero potrebbe?” “Pensavo avreste capito che vostro marito non merita tutte le vostre lacrime o magari avreste dato a me tutta la colpa e avreste avuto qualcuno da odiare. L’odio tiene occupata la mente e distrae da tutto il resto, anche da un grande dolore..” “Ah sì? E allora dovrei odiare lui, odiare voi e magari anche vostro figlio? Siete venuta apposta a servirmi questo rimedio infallibile, dovrei ringraziarvi? ” chiese Matilde sarcastica “davvero avete potuto credere che mi avrebbe giovato? Avete una strano modo di confortare chi soffre..”

Donata non s’aspettava una reazione così pronta e si sentì incalzata dalle parole di lei, ma del resto era giusto, aveva sbagliata ogni cosa, come aveva potuto pensare che una simile rivelazione avrebbe aiutata quella donna che nemmeno conosceva? Che ne sapeva lei del rapporto che c’era stato tra Matilde e suo marito? E il fatto che lui l’avesse tradita poteva mai essere un balsamo per il suo dolore? Ora non sapeva più nulla.

Col buio che era calato, solo il fuoco del camino illuminava ormai la stanza e sul viso delle due donne sedute vicine, le fiamme, quando s’alzavano, disegnavano certe trame lucenti che parevano un gioco o un segnale, così come tutto a questo mondo appare gioco o segnale nelle azioni degli uomini.

Matilde sentiva dentro di sé crescere cupa la voglia di offendere quella donna che aveva avuto il coraggio di venirle a raccontare certe cose nel giorno del funerale di Fosco. Le chiedeva di essere odiata, possibile? Ma che voleva da lei veramente? In un lampo credette di capire: “Siete venuta a reclamare l’eredità per vostro figlio? E’ questo che pretendete?” disse. A quelle parole, Donata s’alzò in piedi di scatto: “avevo giurato a me stessa che se aveste pronunciato questa frase avrei lasciato immediatamente la vostra casa!” Ora le tornavano in mente il discorso che aveva preparato e quelle parole che s’era immaginata di udire quando, la sera precedente, aveva cercato di prevedere la reazione di Matilde.

Fece per andarsene, ma Matilde la trattenne afferrandola con forza per un braccio e costrigendola di nuovo a sedersi.

Il ritratto che le aveva mostrato poco prima traendolo fuori dal seno dove lo teneva nascosto le pendeva ora dal collo e luceva sull’abito scuro, Matilde l’aprì di nuovo: “come gli somiglia!” disse con voce fattasi improvvisamente dolce. Restò ad osservarlo a lungo e Donata, a quelle parole, si sentì morire: quanto male le aveva fatto! Sarebbe voluta tornare indietro nel tempo e non essere mai venuta in quella casa, riandò col pensiero al momento in cui s’era fermata accanto alla conca vuota in giardino, indugiando, e sentì sul cuore tutto il peso del ventre vuoto di quella donna infelice che era venuta a cercare soltanto per ferirla, capì di aver ingannato sé stessa e di non aver mai davvero pensato di voler dare conforto alla vedova di Fosco, il padre di suo figlio, ma d’averla cercata proprio nel giorno in cui lui aveva lasciato Matilde come aveva fatto con lei e vedere da vicino la sua sofferenza ancora peggiore.

 

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Silvina Spravkin, is an Argentinian sculptor who makes her art in mosaic, marble and other medias in Pietrasanta, Italy.